Di Alessandro Artini – Presidente ANP Toscana
Il 9 ottobre, Liliana Segre ha tenuto il suo ultimo intervento pubblico a Rondine, un paesino a qualche chilometro da Arezzo. L’ultimo, dopo trenta anni di testimonianze sulla Shoah, soprattutto nelle scuole.
Rondine era un paese abbandonato, che evocava, già nel nome, il suo futuro destino di pace, quando un gruppo di amici, con una scelta di volontariato, ha restaurato alcune case, una trentina di anni fa. Li guidava Franco Vaccari, un uomo carismatico e visionario, asceso agli onori delle cronache quando, nel dicembre del 2018, tenne un discorso sul disarmo al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Rondine Cittadella della Pace è uno studentato, dove vivono assieme amici/nemici. Si tratta di giovani che si dividono le camere, pur provenendo da popoli in guerra e ostili fra loro, come Arabi e Israeliani. Sono venuti a studiare in Italia e apprendono anche la pace, diventando i futuri leader destinati a propagarla nel mondo. Sì, la pace si studia, cioè si insegna e si apprende, in primo luogo sperimentandola, secondo il “metodo Rondine”.
Prima di Liliana parlano le istituzioni, brevemente: sanno che la giornata non è loro e non abusano delle parole, alcune ben calibrate. Ci sono tutte: la Presidente del Senato Casellati, il Presidente della Camera Fico, il premier Conte; sono presenti anche, con dei messaggi di saluto, il Presidente Mattarella e il Presidente del Parlamento Europeo Sassoli. Liliana è un “bene comune”, sostiene Franco Vaccari e la definizione pare del tutto azzeccata. Poi il racconto, in un silenzio di trepida partecipazione.
Liliana controlla le proprie emozioni, anche se le sue intense parole muovono le corde profonde degli animi. Con la memoria torna ragazzina, otto anni, e rievoca il settembre del ’38, quando scopre di essere “altra” e di dover abbandonare la scuola, che per lei, orfana di madre, era tutto: espulsa, perché ebrea. Racconta di essere stata nascosta in una famiglia di amici. Lei capirà, poi, che essi avevano rischiato la propria vita per lei. Con il padre tenta la fuga in Svizzera, ma vengono ripresi e da quel momento inizierà il loro pellegrinaggio; dapprima nelle carceri italiane, quindi nel Regno del Male: Auschwitz. Il padre scompare nel fumo dei camini. Poi la perdita dell’amica Janine, che non supera la selezione dell’efferato Mengele: ha perso, nel lavoro, due falangi delle dita e ormai è una schiava inutilizzabile. Liliana scopre in se stessa l’abbrutimento, provocato dalla vita nel lager: abbandona l’amica senza rivolgerle un ultimo saluto. Ci racconta, infine, delle terribili “marce della morte”, quando “i tedeschi - così si esprime lo storico americano Goldhagen - trasferivano i prigionieri da un posto all’altro della Germania, senza alcuno scopo”, se non quello di allontanarli dai campi di sterminio che stavano per essere scoperti dagli Alleati. Al termine di una di queste marce, quando gli aguzzini si rendono conto che la guerra è alla fine e ormai, per loro, tutto è perduto, uno di essi si toglie la divisa per mimetizzarsi tra i prigionieri e, rimasto in mutande, getta la pistola. Liliana lo guarda e il suo primo pensiero è quello di prenderla e sparargli. Non lo fa e proprio questa inazione, cioè la rinuncia alla vendetta, da quel momento connota in maniera indelebile il suo essere “donna libera e di pace”.
Memoria, testimonianza ed educazione, cioè scuola: questi sono i termini su cui ruota la mattinata. Eppure queste parole, architravi del mondo culturale, non danno alcuna certezza di sconfiggere il male. La cultura, come suggerisce il filosofo Sloterdijk, non rappresenta un vaccino contro l’abbrutimento (la Germania nazista era uno dei paesi più colti del mondo), e l’utopia di un mondo pacifico di spiriti elevati non pare aver trovato casa. Sloterdijk aggiungerebbe, in maniera ancora più radicale, che spesso menti raffinate si prestano ad attuare gli scopi di dittature perverse.
Rondine, tuttavia, smentisce, almeno in parte, questo pessimismo. La Cittadella della pace, infatti, è la cornice in cui si realizzano quotidianamente delle piccole utopie, quali la conversione in amicizia di giovani appartenenti a popoli nemici. Il metodo Rondine si anima di educazione e l’idea di scuola aleggia sovrana ovunque, non solo nelle aule degli scarni edifici. I miei colleghi Maurizio Gatteschi e Matteo Martelli, insieme ad altri presidi, hanno anche istituito un Quarto anno di eccellenza, destinato ai liceali di tutte le altre scuole italiane. Le piccole utopie rendono tangibile quella più grande di un mondo migliore. Rondine, tuttavia, è anche un luogo di qualche delusione, perché le utopie, come suggerisce Bauman, non sono un approdo finale, bensì una condizione di vita in cui si è immersi, che include anche preoccupazioni e insuccessi. Ma esse, se non degenerano in ideologie, possono cadere ma anche ravvivarsi grazie agli ideali: così accade a Rondine, dove si respira una cultura densa di valori, elevata e, al contempo, capace di scaldare i cuori.
Questo dovrebbe essere il compito della politica, conciliare le idealità con il sentire della gente comune. Questo, secondo Eugenio Borgna, è anche il compito della scuola, purtroppo raramente attuato: tenere assieme i saperi con gli ideali, per impedire che le passioni adolescenziali, brillanti come le stelle del mattino, si spengano e lascino dietro di sé “sciami di infelicità”.
Se accade, l’educazione è una terra riarsa e la politica è sterile, come il fico della parabola evangelica.